I’m working on a dream

Come si fa a spiegare un concerto di Bruce Springsteen a chi non c’è mai stato?

Mah, difficile. Si può provare a raccontarlo, certo. Magari partendo dall’inizio…

Udine, 23 luglio 2009. Torno a vedere Bruce Springsteen dal vivo dopo 10 anni – e l’ho realizzato solo al momento di cambiarmi prima di partire, quando ho tirato fuori la mia t-shirt del concerto del Boss a Bologna e ci ho trovato scritto 1999 – .

Ci torno non proprio nel modo in cui avrei voluto (a un concerto rock si va nel prato) ma in tribuna, parte di un gruppo organizzato che però ha il grosso vantaggio della corriera; così si arriva davanti allo stadio, si riparte da davanti allo stadio e (soprattutto) in corriera si può dormire, specialmente al ritorno. Quindi, per stavolta, va bene così.

L’autista, arrivati allo stadio, ci comunica che secondo lui c’è una confusione doppia rispetto al concerto di Madonna della scorsa settimana. Non per voler fare paragoni fra Bruce e… ah-ehm… quell’altra, ma trovo la cosa estremamente logica e ovvia. 🙂

Si impone una sosta per un panino leggero (porchetta & peperoni) ed entriamo. I posti sono buoni, ma la presenza della pista di atletica fa sì che siamo non proprio vicinissimi al palco. Guardando la folla sul prato inizio a sentire quel sentimento tipo “FATEMI ANDARE LI’!!” che mi accompagnerà per tutto il concerto. E scopro quasi subito che la batteria del telefono è stata prosciugata dall’uso intenso di Twibble durante il viaggio e che, ancor più grave, che ho preso al volo la macchina fotografica senza controllare le batterie. Che, infatti, sono al limite. Avrei bisogno di un buon concerto per ripristinare la pace interiore…

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Alle 9, circa, si spengono le luci ed entrano sul palco tre fisarmoniche che intonano una tarantella. Suppongo che a non a tutti sia chiara la differenza che in Italia è percepita fra Udine e Napoli ma un bel “chisse” stavolta ci sta bene. Ed è l’introduzione a ‘Sherry Darling’, che apre il concerto. Mi sento vecchio, pensando che una volta la suonavamo con i Freeway ed ora mi ricordo a stento il testo, ma come un colpo al cuore parte l’attacco di ‘Badlands’ e sparisce tutto. ‘Hungry Heart’ è cantata in coro da tutto lo stadio, e la ragazza davanti a me si gira a guardarmi dopo che ho urlato tutto il primo giro strofa-ritornello. Tre canzoni e Bruce ha già in pugno tutti. Parte ‘Outlaw Pete’ e l’atmosfera si rlassa un po’, anche se il ‘Can you hear me?’ del refrain si sarà sentito fino in centro a Udine.

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Dopo il terzetto ‘Working on a dream’, ‘Murder Incorporated’ e ‘Johnny 99’ in una bellissima versione elettrica si aprono le richieste: Springsteen raccoglie i cartelli che il pubblico ha portato con le richieste, li porta sul palco, ne sceglie uno, lo mostra alla band e poi “One, two, three, four…” attacca la canzone. Così, a casaccio, pescando potenzialmente fra un repertorio ormai sterminato. E dal cilindro escono perle come ‘Summertime Blues’, il classico di Eddie Cochran, la splendida ‘Streets of fire’, una inattesa ‘Be true’ ed una ‘Waitin’ on sunny day’ durante la quale Bruce passa stupefatto il microfono ad un ragazzino delle prime file (non scherzo, avrà avuto sì e no 7 anni) che intona il ritornello accolto da un boato del pubblico.

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E si continua, senza soste, sempre con una canzone dietro l’altra, lanciate dal classico “One, two, three, four…”. ‘The promised land’ è trascinante, ’41 shots’ è da pelle d’oca e ‘Born to run’ (che è sempre ‘Born to run’…) conduce alla classica pausa prima dei bis. Solo che la band non lascia neanche il palco. Bruce si dirige verso il pubblico, prende l’ennesimo cartello, lo mostra alla band e attacca ‘Born in the USA’ che scatena il pandemonio. ‘Bobby Jean’ (una delle mie preferite) e ‘Dancing in the dark’ con una ragazza del pubblico chiamata sul palco a ballare lanciano il finale sulle note di ‘Twist and shout’ mescolata a ‘La bamba’, eseguite a luci accese e con tutto lo stadio che balla. Alla fine, Bruce sorridente è costretto a fare un segno al pubblico per far capire di non farcela più, quasi a giustificarsi per il solito spettacolo tiratissimo di “sole” tre ore.

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Ecco, a raccontare Springsteen ci sono (forse) riuscito. Ma si può spiegarlo a qualcuno che non l’ha mai visto dal vivo, fargli capire cosa significa un concerto di Bruce Springsteen, in modo da fargli venir voglia di vederne uno, se dovesse capitare?

Si può spiegare l’energia? Quel fluido invisibile che inizia a scorrere non appena Bruce entra nel palco, che inizia ad entrarti dentro con la prima canzone e che ti rimane intrappolato dentro già dal primo “One, two, three, four…” – cioè l’attacco della seconda canzone -.

Si può spiegare l’allegria? Quella che ti prende vedendo questo ragazzino di quasi 60 anni correre in giro per il palco, scherzando e cazzeggiando con Little Steven, Max Weinberg, Nils Lofgren, i suoi migliori amici vecchi come lui se non di più (ehi, Clarence ‘Big Man’ Clemons ne ha 67 ormai…), improvvisare improbabili gag come quella della grappa e capire che si sta davvero divertendo anche lui.

Si può spiegare la musica? Rock vero, puro, asciutto, diretto, senza trucchi né inganni. Canzoni che ti prendono, ti fanno muovere, ti fanno salire in alto e commuovere, e ballare e cantare, e ti asciugano e ti lasciano svuotato ma felice.

Si possono spiegare le parole? Parole semplici, dirette per storie vive, reali. “Io rubo direttamente dalla vita, dalle cose che capitano a tutti. Nelle canzoni non voglio parlati di me. Voglio parlarti di te.” (intervista a Rolling Stone Magazine, luglio 2009 nell’edizione italiana; leggetela se vi capita, perchè merita).

Si può spiegare la preparazione che c’è dietro? Non mi vengono in mente molti altri artisti che dicono ai fans “Al concerto portatevi dei cartelli, scriveteci sopra il titolo della canzone che volete sentire e noi ve la suoniamo”. E Bruce va fra il pubblico, raccoglie un po’ di cartelli, li porta sul palco, ne prende uno, lo alza verso la band per farglielo vedere e poi… “One, two, three, four…” parte la canzone, perfetta, senza sbavature, magari sconosciuta, magari ineseguita dal vivo da lunghissimo tempo, non importa, perchè l’hanno chiesta e noi gliela facciamo. E poi un’altra, e un’altra ancora…

Si può spiegare la fitta alla bocca dello stomaco di un ragazzo di 44 anni seduto comodamente in tribuna, che guarda la selva di mani ondeggianti sul prato, pensa ai ragazzi sudati, afoni ed esausti che ci stanno sotto e pensa “FATEMI ANDARE LI’!!”?

Boh, forse ci si può provare, ma non credo renda molto. Allora facciamo così: la prossima volta, fidatevi, andate a vederlo. E fatemi un fischio, così vengo anch’io. Sul prato, però. 🙂

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